A quasi 5 anni dall’omicidio di Giulio Regeni, si profila l’ipotesi del processo nei confronti dei sospetti autori del reato. La Procura di Roma ha infatti annunciato, in una videoconferenza con il procuratore generale della Repubblica d’Egitto, l’intenzione di avviare il processo per incriminare gli assassini dello studente che ha perso la vita nel gennaio del 2016. La mossa spezza un impasse che durava da lungo tempo e arriva a breve distanza dalle richieste effettuate dal Presidente del Consiglio Giuseppe Conte al premier egiziano Al Sisi di approfondire le indagini sull’ipotesi che i responsabili siano ufficiali di Stato.
Tornando all’iniziativa della Procura di Roma, la lapidaria risposta del procuratore egiziano, che sostiene l’assenza di un sufficiente quadro probatorio per sostenere l’accusa in giudizio, sembra essere piuttosto fondata. Attualmente, la principale certezza dello Stato italiano è quella del tentato depistaggio da parte della polizia egiziana, ma i profili degli effettivi autori sono tutt’altro che certi.
La risposta proveniente dalla procura egiziana, tuttavia, acquisisce valore nel senso di sancire il definitivo divaricarsi delle strade seguite dalle distinte forze giudiziarie, ora quantomai contrapposte. Infatti, la scelta di disconoscere la solidità dell’impianto probatorio ha scatenato le ire della famiglia Regeni, oltre che dell’avvocato Ballerini. Il fatto che sia intervenuta dopo ritenute prove di scarsa collaborazione, ultima l’insistenza nel non fornire gli indirizzi degli indagati per poter a questi regolarmente notificare le indagini a loro carico, non fa altro che peggiorare la situazione.
La domanda che sorge, tuttavia, è: le Corti italiane hanno la competenza per processare gli assassini di Regeni? La risposta è affermativa. Tuttavia, in considerazione della carica di ufficiali di Stato rivestita dai possibili rei, è possibile intentare un’azione contro lo Stato egiziano? In questo caso, la risposta dipende da alcune questioni.
La prima domanda da porsi è se l’Egitto abbia effettivamente commesso un illecito internazionale o meno. La risposta è certamente affermativa su due versanti: il paese nordafricano ha certamente violato le norme internazionali sulla protezione degli stranieri, oltre che, molto più gravemente, riguardo alla norma, di assoluta priorità gerarchica, di violazione del divieto di tortura, unico diritto umano, assieme al diritto alla vita, ad assurgere al ruolo di “diritti assoluti”, ovvero che per nessuna ragione possono essere limitati.
Al momento, tuttavia, l’impianto probatorio non è sufficiente a provare la partecipazione o compartecipazione dello Stato egiziano per il tramite dei propri ufficiali di polizia nella tortura di Regeni e dunque è difficile pensare di poter muovere un’accusa in questo senso, allo stato dei fatti. Al contrario, un maggiore spazio di manovra può essere utilizzato nell’indicare l’Egitto responsabile della violazione dell’obbligo di prevenzione del reato di tortura e/o di trattamento disumano.
Gli obblighi positivi in capo a ciascun paese in questo senso non si limitano peraltro alla prevenzione, ma includono anche le indagini che seguono il reato. Il fatto che Regeni fosse sotto osservazione della polizia egiziana al tempo della morte e che il corpo investigativo egiziano abbia senza dubbio violato l’obbligo di procedere alle indagini tempestivamente e con la massima diligenza forniscono solide basi per reggere un’azione giudiziaria nei confronti dell’Egitto per violazione dell’obbligo positivo di impedimento e repressione del reato di tortura.
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