Il diffondersi a macchia d’olio del Coronavirus sta provocando nell’arco delle ultime settimane una mobilitazione generale che ha davvero pochi precedenti. Scuole ed Università chiuse, manifestazioni sportive sospese, città quasi completamente bloccate, farmacie prese d’assalto con mascherine e prodotti per l’igiene andati a ruba e diverse decine di migliaia di persone che hanno annullato o rinviato i viaggi e le gite in programma.
La paura della popolazione è molto forte: il prospettarsi di un’epidemia, al quale si aggiungono le informazioni fornite con esasperante frequenza dai media ufficiali e da Internet con una tecnica di comunicazione non esattamente serena e rassicurante, sono elementi sufficienti affinchè la gente diventi preda del terrore più assoluto ed inizi a prendere decisioni avventate e per questo non troppo ragionevoli.
Risulta ovviamente corretto prendere quante più contromisure possibili, soprattutto alla luce del triste evolversi della situazione nel nostro paese e i conseguenti appelli lanciati dal Governo. Tuttavia, al contempo, potrebbe apparire altrettanto lecito interrogarsi sul perché invece non si siano mai registrate simili reazioni per quanto concerne un’altra piaga dei nostri giorni: il clima.
Infatti, secondo i dati e le statistiche raccolte dagli Istituti e dalle Organizzazioni volti alla tutela ed alla protezione dell’Ambiente, dagli inizi del nuovo millennio si possono contare addirittura 500000 vittime degli eventi catastrofici avvenuti a causa dei repentini cambiamenti climatici cui stiamo da tempo assistendo.
Inoltre, come se ciò non fosse di per sé sufficiente a far risuonare dentro di noi un campanello d’allarme, gli esperti stimano che nel giro di trenta anni arriveremo all’apocalittico punto in cui le catastrofi ambientali causeranno la morte di ben 250000 persone ogni anno. Questi numeri così spaventosi diventano ancor più altisonanti se vengono comparati ed affiancati alle poche migliaia di decessi provocati dal Coronavirus.
Il sociologo dell’Ambiente Giovanni Carrosio riesce a fornire adeguate risposte alle nostre domande. Secondo il Dottor Carrosio infatti, tutto ruota intorno alle “dinamiche con cui si formano le costruzioni sociali del rischio”. In poche parole, la percezione del pericolo da parte delle persone spesso non dipende dall’entità del pericolo stesso, bensì da altri fattori. Così, per esempio, il fatto che la diffusione di una epidemia sia molto più rapida rispetto ai cambiamenti climatici che comunque ci circondano fa sì che noi riteniamo il contagio del Coronavirus essere molto più grave del peggioramento della situazione ambientale.
E ancora, ad avere una notevole influenza sulle nostre reazioni è anche il luogo in cui questi avvenimenti possono essere tastati: gli agglomerati urbani nel caso delle epidemie, zone molto spesso remote del mondo nel contesto dei cambiamenti climatici.
Infine, gli impegni richiesti per prevenire i contagi sono immediati e a breve gittata, quindi, se vogliamo, più semplici. Al contrario, le contromisure da prendere per proteggere l’ambiente sono molto più sottili e duraturi, implicando dunque una costanza a cui non tutti sono così inclini.
Pertanto, si può agevolmente chiudere con un’osservazione tanto provocatoria quanto, ahimè, vera. Dietro a questa differenza di trattamento nei confronti della piaga legata all’ambiente, vi è nient’altro che la concezione egoistica del rischio di cui quasi nessuno riesce a sbarazzarsi. Il Coronavirus viene percepito come un rischio più grave solo perché più vicino a noi, mentre inquinamento e riscaldamento globale sono tuttora ritenuti, erroneamente, meri dati di fatto i cui effetti saranno sofferti dalle generazioni future in un secondo momento, quando tutto ciò non sarà più affar nostro.
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