La Corte Suprema, il massimo organo giudiziario degli Stati Uniti d’America, si è pronunciata a favore della legittimità della politica dell’amministrazione Trump conosciuta come “Rimani in Messico”, la quale consiste nell’imporre ai richiedenti asilo di attendere in Messico per tutto il tempo necessario affinchè le autorità esaminino le loro domande.
La “Rimani in Messico” entrò in vigore nel gennaio del 2019 e da quella data si contano circa 60000 persone rimbalzate aldilà dei confini degli USA in ottemperanza alla riforma in questione.
Risulta chiaro come questa norma rientri nel novero delle misure ideate da Donald Trump e dai suoi collaboratori al fine di contrastare e arginare gli incontrollabili flussi migratori provenienti prevalentemente dal Sud e dal Centro America.
Sempre a questo riguardo difatti, il Presidente ha recentemente rilanciato l’iniziativa di raccogliere e conservare in una banca dati il materiale genetico prelevato da coloro che varcano i confini americani irregolarmente. Anche questa decisione sta sollevando polemiche, poiché secondo alcuni contraria a fondamentali principi di diritto penale e costituzionale.
Le strette sull’immigrazione hanno da sempre rappresentato il fulcro attorno al quale il programma politico di Trump ruota, tuttavia è doveroso ricercare un bilanciamento tra le scelte presidenziali in materia e la tutela dei diritti umani delle diverse migliaia di persone coinvolte in questa vicenda.
Proprio su questa scia si erano collocate le pronunce di alcune Corti federali, le quali avevano optato per la sospensione della “Rimani in Messico”, in quanto le suddette pratiche di rimpatrio costringono i soggetti respinti a vivere in condizioni inumane e degradanti, essendo tra l’altro sottoposti a stati di forte angoscia e stress poiché perennemente a rischio di rapimenti e stupri.
Così, in seguito a queste sentenze che avevano messo in luce l’importanza di assicurare ai richiedenti asilo una protezione adeguata dei loro diritti e della loro sicurezza, i giudici della Supreme Court hanno invece optato di non intraprendere questa strada e hanno dunque stabilito che quanto stabilito ormai più di un anno fa dal tycoon continuerà a trovare attuazione.
Sembra evidente come la Corte Suprema, nel suo judgement, non abbia preso in considerazione il noto principio di non-refoulement. Quest’ultimo è il dovere – riconosciuto soprattutto a livello europeo, essendo esso compreso nella CEDU- di astenersi dal rimpatriare i rifugiati, nel momento in cui questi rischierebbero, nel paese di destinazione finale, di subire torture e altri trattamenti degradanti.
Secondo la giurisprudenza ormai consolidata delle Corti atte ad interpretare il diritto internazionale concernente la tutela dei diritti umani, il principio di non-refoulement, in quanto volto a far rispettare la regola cogente del divieto di tortura, diventa a sua volta parte dello “ius cogens”. Di conseguenza il dovere di non respingimento in casi del genere rientra tra le norme fondamentali del diritto internazionale e per tanto tutti gli attori sul palcoscenico mondiale devono impegnarsi a conformare il proprio ordinamento ad esso.
Per chiudere dunque, appare lecito auspicare una immediata inversione di tendenza su questa pratica, in modo tale da scongiurare ulteriori sofferenze di innumerevoli persone indifese, tra le quali figurano certamente anche parecchi minori.
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