USA, persiste la richiesta per la messa in stato d’accusa per Donald Trump

In seguito all’insurrezione pro-Trump avvenuta il 6 gennaio, nella quale una folla ha letteralmente invaso le sale del Congresso a Washington, è partita la richiesta dalla Camera dei Rappresentanti per l’impeachment al presidente uscente degli Stati Uniti, con l’accusa di istigazione alla violenza pubblica, per aver incitato all’insurrezione suddetta, che ha portato alla morte, negli squilibri, di 5 persone.

L’impeachment consiste essenzialmente nella messa in stato d’accusa del presidente, che negli Stati Uniti è regolata dal 25esimo emendamento alla Costituzione. Essenzialmente la procedura origina dalla Camera dei Rappresentanti e richiede poi un voto successivo al Senato. Si tratta di una procedura volta ad incriminare funzionari pubblici per reati commessi durante il periodo d’ufficio e tra questi soggetti è ricompreso anche il governatore.

Inizialmente sembrava che la richiesta di impeachment fosse destinata a risolversi in un nulla di fatto, ma la senatrice Nancy Pelosi ha affermato che sono presenti i numeri sufficienti per avviare la procedura. Dopo le votazioni avvenute in Georgia proprio il 6 gennaio, peraltro, anche in Senato la maggioranza è colorata di blu, con gli ultimi due senatori democratici a offrire a questi ultimi la maggioranza. Dunque, anche il voto in Senato non appare un limite all’applicazione della misura destitutiva.

Il presidente votato alle ultime elezioni, Joe Biden afferma: “Trump non dovrebbe essere al potere, punto.”

I motivi sulla base dei quali arriva la richiesta, tuttavia, non si limitano all’istigazione all’assalto a Capitol Hill, ma anche alle pressioni di Trump ai dirigenti della Georgia per non convalidare il voto ai senatori e le ormai note false dichiarazioni di vittoria espresse con costanza sin da prima dell’uscita dei risultati ufficiali dell’elezione dello scorso dicembre e mai cessate finora.

Il primo tentativo portato avanti per l’impeachment, tuttavia, è la richiesta al vicepresidente Mike Pence di adottare il provvedimento. La soluzione, se dovesse incontrare l’approvazione del vicepresidente, permetterebbe di aggirare il voto in Camera e Senato. Realisticamente, tuttavia, è difficile che la richiesta verrà accolta ed è invece realistico che toccherà passare attraverso le istituzioni parlamentari.

È interessante ascoltare le dichiarazioni dell’ormai ex-first lady Melania Trump, che, oltre ad accusare la violenza e i modi mostrati, specificando come tale azioni rappresentino un pericolo, ringrazia la passione dimostrata dai manifestanti per il presidente arancione e per l’entusiasmo dimostrato nei confronti di un’elezione amministrativa. Voci di corridoio affermano che lo stesso presidente sia intenzionato a procedere alla denuncia delle vicissitudini di Capitol Hill, sebbene sia difficile immaginare che questo succederà.

Al di là dell’irrealisticità dello scenario, è inoltre difficile immaginare anche il “come” tali scuse dovrebbero arrivare. Lo strumento più utilizzato da Trump, infatti, sono i social network, dal quale Trump ha ricevuto un divieto perpetuo nei giorni scorsi, a sanzione rispetto alla diffusione di notizie false ed istigazione all’odio e all’odio razziale. Proprio questo provvedimento ha peraltro inaugurato un dibattito molto interessante, in merito alle misure che possono essere legittimamente adottate da imprese private, com’è naturalmente Twitter, ad esempio, in merito a questioni come il diritto all’espressioni. Un dibattito che ancora non ha risposte univoche, ma che presenta il potenziale di diventare focale nel futuro.

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