Netflix ci ha fatto aspettare mesi per una parte 3, per una parte 4 c’è voluto ancora tantissimo tempo. Peccato che La Casa di Carta parte 4 sia un disastro totale, forse il punto più basso raggiunto da Netflix, non certo un’azienda estranea a clamorosi sfondoni.
La Casa di Carta era cominciata come versione spagnola della saga di Ocean’s una trilogia diretta da Soderbergh (autore di Contagion, di cui si è parlato su La Ragnatela qui), dove una banda di rapinatore metteva in scena un ibrido tra furto e truffa estremamente complesso.
Anche il piano dei rapinatori con le maschere di Dalì e con i nomi di città partiva in modo molto articolato, orchestrato dal brillante stratega capo della banda, il Professore. Peccato che le cose ci mettano poco a precipitare andando fuori controllo.
Da lì La Casa di Carta si tramuta in un grottesco teatrino principalmente incentrato sugli sviluppi sentimentali dei personaggi. Alcuni dei quali a dir poco ridicoli. Per cominciare si potrebbe citare l’esempio di Monica, che si innamora incredibilmente del suo sequestratore che le ha pure sparato in una gamba.
Arrivando poi alla detective incaricata delle indagini, che decide di tradire il proprio paese e i suoi amici, oltre che colleghi, per scappare insieme al Professore, che l’aveva avvicinata, trovandosi all’infuori della Zecca di Spagna dove si svolge il colpo, giocando sul fatto che fosse una donna maltrattata.
Al di là della componente surrealista della situazione, non proprio una scena molto pedagogica.
L’inizio della terza stagione è forse il momento più imbarazzante, con due personaggi, Tokyo e Rio, che si continuano a chiamare ostinatamente così, nonostante conoscano i propri nomi, per non confondere lo spettatore (il che è il contrario di ciò che dovrebbe avvenire, la trama si piega alla logica, non l’inverso).
Due bambini troppo cresciuti che deliberatamente fanno stupidaggini in modo da farsi beccare e poter fare un’altra stagione. Il personaggio di Tokyo si conferma incredibilmente irritante e un Deus ex machina ribaltato. Se normalmente questo espediente viene usato per dirimere la trama, in questo caso fa il contrario: la rende un pastrocchio.
La Casa di Carta è diventato un fenomeno culturale pop grazie ad un fortissimo senso di identificazione ottenuto mediante un’efficace utilizzo del guerrilla marketing: maschere di Dalì protagoniste di feste a tema, “resilienza” etc…
Peccato che la serie ormai abbia ben poco da offrire, la storia è visibilmente esaurita e la visione non fa che regalare un profondo senso di imbarazzo e delusione. Senza contare che poi, l’unico personaggio interessante della serie, Berlino, ormai fa parte della storia soltanto attraverso i flashback.
La Casa di Carta è perfettamente paragonabile ad un altro prodotto Netlfix: Tredici. Anche lì Netflix è partita forte con una storia oggettivamente innovativa, per poi arenarsi e far fuori l’unico personaggio vagamente interessante, Bryce Walker. Anche lì, la serie va avanti perché i personaggi fanno cose stupide in situazioni stupide.
Netlfix dovrebbe imparare a fermarsi quando la storia chiaramente arriva a un capolinea.
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