L’ inferno delle carceri italiane

Il 6 aprile 2020 si sono verificati molteplici atti di violenza all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere, da parte della polizia penitenziaria nei confronti di circa 300 detenuti. Le aggressioni sono state portate avanti da agenti di polizia sia interni che esterni alla struttura, e sono avvenute a scopo punitivo nei confronti di una protesta verificatasi all’interno del carcere, nel reparto Nilo,  il giorno precedente. La manifestazione era avvenuta principalmente per la richiesta di mascherine e igienizzanti da parte dei carcerati al fine di  evitare la diffusione del Covid, oltre che per la sospensione delle visite. Secondo quanto riportato dalla magistratura si è trattato di «perquisizioni personali arbitrarie e abusi di autorità», nei fatti una punizione costituita da violenze portata avanti per quattro ore. I filmati del carcere hanno riportato le immagini dei soprusi, compiuti con calci, pugni, schiaffi e colpi di manganello contro i detenuti.

Questi atti di violenza hanno acceso una grande polemica, in quanto rappresentano l’ennesimo caso di maltrattamento all’interno delle carceri, contro persone che non possono in alcun modo difendersi. Fino a questo momento sono infatti 8 i casi di aggressione compiuti da agenti all’interno dei penitenziari italiani. Il Gip che ha condotto l’inchiesta ha definito l’episodio «un’ignobile mattanza», e la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha chiesto «un rapporto completo su ogni passaggio di informazione e sull’intera catena di responsabilità» definendo l’accaduto «un tradimento della Costituzione».

La violenza all’interno delle carceri italiane non è l’unico problema del nostro sistema, che, secondo le più importanti associazioni umanitarie, riporta condizioni non degne di uno stato sviluppato. Basti ricordare che nel 2013 l’Italia era stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) a causa del sovraffollamento nelle carceri. Noto in questo contesto, il caso delle carceri di Varese e Piacenza, dove i detenuti erano costretti a vivere in celle troppo piccole, privati di acqua calda e luce naturale. Secondo il parere della Cedu, questo trattamento violava l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani, che proibisce insieme alla tortura le «pene o i trattamenti inumani o degradanti». Le carceri italiane restano molto indietro anche per quanto riguarda il sistema dei servizi educativi per i detenuti, importantissimi per attuare il principio costituzionale (art. 27 co.3) che prevede finalità educative per la pena di reclusione. Difatti, nel nostro paese più dell’80% dello staff delle carceri si occupa solo di vigilare sui detenuti.

Un modello esemplare in questo contesto è rappresentato dalle carceri norvegesi, dove i detenuti, una volta usciti riescono a ottenere occupazione e una nuova vita grazie ai piani di formazione e avviamento al lavoro. Grazie a questa gestione, la percentuale di recidiva in Norvegia è la più bassa del mondo, e si attesta al 30%. “Se tratti una persona come immondizia, si comporterà come immondizia, se la tratti come un essere umano, si comporterà come un essere umano”, questo il motto del sistema carcerario norvegese.

 

 

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