Avevamo parlato del colpo di stato per mezzo del quale Aung San Suu Kyi era stata arrestata e con il quale l’esercito birmano aveva imposto nuovamente la propria dittatura sul paese e avevamo anche riportato la reazione della popolazione, che si era riversata nelle strade, scatenando la repressione violenta dell’esercito, con un episodio che aveva attratto l’attenzione dei notiziari: la morte di una diciassettenne colpita da un proiettile alla tempia sparato da un militare.
Da quel momento, sia noi, sia la stampa nazionale, avevamo smesso di aggiornare sulla situazione in Myanmar, che è giorno dopo giorno sempre più tragica. Se quella prima vittima aveva scatenato una reazione emotiva, le oltre 60 vittime che ne son seguite trasmettono piuttosto una sensazione di scoraggiamento e paura. Le proteste stanno continuando ogni giorno, ma ora vi è coscienza che la manifestazione del proprio pensiero costa, nel migliore dei casi, la libertà e, nel peggiore dei casi, la vita.
È passato più di un mese dal colpo di stato, avvenuto l’1 febbraio. Il paese si è dimostrato coraggioso e forse addirittura disperato, facendo sentire inconfondibile il ribrezzo per un governo preso con la forza e il caldo desiderio di riacquistare quella democrazia tanto attesa e che si manifesta così rara, tra i territori attorno alla Cina. La risposta dell’esercito è stata però ancor più fredda e determinata, visto che la nuova dittatura ha lanciato il segnale di non curarsi eccessivamente delle morti: 18 nella sola giornata di domenica 28 febbraio.
Non sorprendono i numeri considerato che i perpetratori delle violenze sono gli stessi che hanno apposto la firma sotto il genocidio dei Rohingya, tragico episodio che vide un numero attestato intorno alle 7000 persone perdere la vita e circa 800.000 costretti alla fuga nei paesi circostanti, riguardo al quale proprio la Suu Kyi era stata accusata, anche formalmente, con la presentazione di fronte alla Corte Internazionale di Giustizia, di genocidio, di eccessiva accondiscendenza rispetto alla strage da parte delle forze armate dell’esercito.
Ancor più simbolica è appunto la scesa in campo degli stessi Rohingya a difesa di quella presidentessa che li aveva, sulla carta, abbandonati, a riprova di come l’opinione sia che Suu Kyi non fosse davvero indipendentemente al comando, ma di come anche il suo breve mandato repubblicano abbia rappresentato una facciata per nascondere la dittatura militare e di come probabilmente si sia trattato di un compromesso per mantenere l’opinione internazionale lontana dal paese, mentre il potere rimaneva nelle mani del regime.
Dicevamo, simbolica la scesa in campo dei Rohingya assieme a tutto il resto del paese, unito in una battaglia contro la nuova giunta. A tutti gli effetti, sembra di essere di fronte ad una guerra tra la dittatura ed il popolo, ed è inevitabile che si richieda un intervento umanitario da parte delle organizzazioni internazionali del caso, la cui indifferenza rispetto alle violazioni costanti dei diritti umani che stanno venendo registrate in questi giorni non rappresenta un’opzione.
Le ultime nuove attraggono invece le attenzioni anche sul nostro paese. Sono stati rinvenuti, tra i proiettili sparati dall’esercito birmano, delle munizioni provenienti da un’impresa italiana. Considerato che è presente un embargo su armi e munizioni nei confronti del Myanmar dal 1991 da parte dell’UE e che dunque coinvolge anche l’Italia, il fatto verrà indagato. Peraltro, il nostro paese mantiene una conversazione costante con il Myanmar ed erano stati diversi i progetti immaginati durante il periodo democratico. Molte sono le ONG italiane che vi operano e un eventuale congelamento dei fondi italiani viene visto con preoccupazione, data la situazione di povertà del contesto sociale birmano.
Per il momento, Cheddite, l’impresa di Livorno “incriminata”, smentisce categoricamente di aver venduto le proprie armi al paese e la buona fede di questi è lungi dall’essere esclusa, date le ramificazioni spesso oscure che riguardano il mercato di armi e munizioni, specie con riferimento a paesi ai quali la vendita è vietata. Il Ministro degli Esteri Di Maio ha convocato l’ambasciatrice birmana a Roma e tale atto, in contesto diplomatico, ha una sua importanza. Si attendono sviluppi in un contesto che appare quantomai sul ciglio di diventare drammatico.
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