Il 13 febbraio, in contemporanea con gli Stati Uniti, sul catalogo italiano di Netflix ha fatto il suo debutto la seconda stagione di Narcos: Messico. La serie, concepita inizialmente come il proseguo di Narcos è diventata poi uno spin-off a tutti gli effetti, non recidendo comunque mai i legami con la storia colombiana. In questa stagione, la guerra alla droga è scossa dall’omicidio di Enrique “Kiki” Camarena, primo agente federale della Dea a cadere in servizio, dopo essere stato rapito e torturato dal Cartello di Guadalajara. Non è difficile capire il perché dell’importanza di questo episodio: i cartelli erano finiti al centro del dibattito mediatico, erano divenuti un qualcosa di conosciuto, non potevano più vivere nascosti.
Se in Narcos, tra le strade e le campagne di Medellin, avevamo visto un Pablo Escobar trasformarsi in un narco-terrorista cercando lo scontro frontale con lo Stato, nella saga messicana vediamo il boss del cartello, Miguel Angel Felix Gallardo, protetto da corruzione e omertà di polizia e classe politica. Il che rende ovviamente più complesso il mestiere delle persone oneste rimaste. La reazione americana ha comportato l’invio di una squadra di agenti della Dea in gran segreto che, d’accordo con coraggiosi uomini di legge messicani, devono braccare i membri del cartello per arrivare all’intoccabile boss. Ma andiamo per ordine.
Come è consuetudine nelle stagioni di Narcos, il vero protagonista è il cattivo. Gallardo domina la scena, nonostante la corporatura esile, è lui il vero catalizzatore delle attenzioni di chi guarda. Consapevole di aver commesso un errore nell’uccidere Kiki Camarena, attirandosi l’odio delle autorità statunitensi, deve gestire le pressioni dei suoi fornitori principali, i “gentiluomini” del Cartello di Cali (antagonisti principali della terza stagione di Narcos, nello spin-off sono il principale collegamento con la serie madre) e delle altre “piazze”, le gang sparse per il Messico che costituiscono il Cartello di Guadalajara, irritati tutti dalla crescita dei costi di contrabbando. Tra questa gang, si aggira un personaggio che salirà alla ribalta delle cronache anni dopo, Joaquín “El Chapo” Guzmán, qui ancora intento a costruirsi una carriera nel mondo del narcotraffico. Gallardo non è spietato come vorrebbe far credere ai suoi nemici, è certamente spregiudicato ma allo stesso tempo dubbioso, incerto, pieno di sospetti ed incertezze. Oltre che sofferente per amore. Da lodare la straordinaria interpretazione di Diego Luna, in Italia noto ai più per aver partecipato a The Terminal.
Dall’altro lato della barricata, l’agente Walt Breslin (personaggio mai esistito nella realtà) deve confrontarsi con un sistema che gli rema contro, spingendosi spesso oltre il limite, nel cercare di contrastare chi non segue alcuna regola. Di certo non è stata una rappresentazione memorabile, forse la più grande delusione di questa stagione, complici le serie precedenti che ci avevano abituato a personaggi di un certo spessore anche tra le forze dell’ordine. In realtà le sue apparizioni sullo schermo sono rare, svolge per buona parte del tempo un mestiere investigativo di stampo quasi impiegatizio. Non per questo Netflix si è esonerata dallo stratificarlo come si deve. Infatti Walt vive continuamente tra il desiderio di giustizia e quello di vendetta, per via di suo fratello, morto anni addietro per colpa di un overdose. Lodevole comunque la volontà degli sceneggiatori di sacrificare Walt che, data la situazione, necessitava un ruolo più marginale, rispetto al piegare la logica della trama e la fedeltà storica a esigenze di sviluppo di un singolo personaggio. Lui ne ha perso, ma l’opera intera ne ha giovato.
Il grande successo di Narcos sta nella fedeltà con cui viene rappresentata la storia. Non c’è mai stato bisogno di rendere la vicenda dei narcos più avvincente, lo è già abbastanza. Da qui la totale assenza di forzatura e lungaggini inutili. Il prodotto di Netflix si rivela quello più solido (oltre che maturo) del suo catalogo, la vera quintessenza del servizio di streaming americano. Data la tangibilità del problema della droga nella nostra società, capire i meccanismi di funzionamento del mondo che ne è il principale responsabile non può che arricchire lo spettatore. Narcos: Messico è un must proprio perché nel suo essere avvincente racconta una storia di fondamentale importanza per la cronaca attuale, per riflettere anche sul fenomeno della corruzione e sulle difficoltà che ogni giorno gli uomini di legge devono affrontare. Di certo non è una serie leggera, che si guarda se non si ha nient’altro da vedere o peggio ancora distrattamente. Narcos: Messico è un’opera necessaria, che va guardata. Questo ovviamente non toglie il fatto che se si volesse approfondire il tema, una serie televisiva non sarebbe assolutamente sufficiente. Ma di certo è uno straordinario inizio, tra l’altro su una piattaforma mainstream come Netflix, il che la rende accessibile a chiunque.
Questa serie, come i suoi predecessori, non ha uno scopo pedagogico, mostra i fatti, sta poi allo spettatore farsi un’opinione, avendo prima vista però sì le atrocità dei cartelli, ma anche i metodi discutibili della polizia. Sta allo spettatore, ad un certo punto, fermarsi e domandarsi: non si sono spinti troppo oltre? Sono sicuro che i buoni siano davvero così buoni?
Narcos: Messico va ben oltre le sparatorie.
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