(Non) Top 20: gli esclusi illustri tra i dischi usciti nel 2020

In un 2020 infelice da praticamente qualunque punto di vista, va evidenziata la singola nota positiva della prolificità e qualità delle uscite musicali. Il 2020 ha visto infatti un assoluto successo in termini di produzione artistica in campo musicale, variegando debutti importanti e consacrazioni attese, mantenendo anche un ritmo piuttosto consistente in tutti i periodi dell’anno in termini di uscite in cui immergersi. Si potrebbe dibattere come si tragga frequentemente ispirazione proprio dai periodi più difficili, ma senza perdersi in speculazioni poco produttive e molto banali, accogliamo i benefici di quest’anno in musica e vediamo quali sono stati alcuni dei dischi più interessanti.

In attesa della top 20, incominciamo con gli esclusi illustri, che comprendono alcuni artisti che ad inizio anno non avrei mai pensato di poter escludere da questa classifica a questo punto della loro carriera. Il nome che mi viene in mente è quello di Daniel Lopatin, altresì noto come Oneohtrix Point Never. Praticamente infallibile in tutte le uscite dall’inizio della propria carriera e reduce dal successo dell’acclamato Age Of, che aveva portato Opn a imprimere il proprio riconoscibilissimo stile su territori di pubblico più vasti, quest’anno è uscito Magic Oneohtrix Point Never.

Chiariamoci, il disco è una perla. Alcuni brani sono dei classic Oneohtrix che non hanno nulla da invidiare ai vari Replica e R Plus Seven. Penso a No Nightmares, cantilena ottimistica letteralmente soffocata da riverbero e sintetizzatori, ma in grado di unire magistralmente tutti gli elementi sonori al suo interno, o a Lost But Never Alone, lenta, ma inesauribile melodia nostalgica arricchita con assoli di chitarra scesi direttamente dall’iperspazio, mio personale high nell’album. D’altra parte c’è anche il brano che tende la mano al pubblico meno abituato ai cocktail di sintetizzatori astratti, con la ritmata I Don’t Love Me Anymore, anch’essa praticamente in grado di rispettare perfettamente gli schemi Lopatiniani.

Ma quindi, che c’è che non va con questo disco? Nulla. Forse solamente poco coraggio nell’uscire dalla comfort zone, se così possiamo chiamarla e il fatto che quest’anno siano usciti 20 dischi migliori.

Una parola d’affetto va spesa anche per gli Strokes, che dopo anni interminabili di uscite disastrose, in cui i fan di Casablancas si erano arresi all’idea di poter sentire la sua voce senza vergognarsi di ciò che stavano ascoltando solamente con i The Voidz, svoltano il 2020 dei nostalgici dell’indie rock con The New Abnormal. Innanzitutto, la copertina. Quadro di Basquiat pieno di colori e di energia, che vengono riportati puntuali all’interno del disco, in cui senza fare nulla di particolarmente innovativo, i 5 musicanti di New York scrivono i loro più piacevoli brani dai tempi di Room Is On Fire.

Da un lato, il disco, appunto, non offre nulla di speciale e anzi, in alcuni momenti risulta un pochino statico, si veda Bad Decisions che ricorda davvero tanto Billy Idol e che inizia ad innervosire per la propria semplicità dopo il terzo ascolto. Dall’altro lato, At The Door è un capolavoro artistico. Zero chitarra, puro storytelling sonoro a tratti davvero esasperato di Casablancas, che anche a livello di testo si immola in una reificazione praticamente implorata: “use me like an oar, drag yourself to shore”. Brano che da solo sarebbe in grado di tenere in piedi un disco intero. Se ci aggiungiamo che anche gli altri brani male non sono, è un disco che val la pena di esser ascoltato.

Ritorno molto atteso anche per i Tame Impala, con The Slow Rush. Qui non ho moltissimo da dire. Il disco è bello, ma tutto sommato piuttosto dimenticabile. Nulla di male, ma nemmeno nulla di troppo bene. I Tame Impala continuano la propria gradualissima inclinazione verso uno stile sempre più orecchiabile e ballabile, al punto che il disco risulta anche troppo superficiale. Ascoltandolo, comunque, la testa ballonzola a sufficienza e viene difficile immaginare che ai fan della band possa essere dispiaciuta questa nuova uscita. Breathe Deeper è un gran bel pezzo da aperitivo in spaggia. Bravi, ma non bravissimi.

Il discorso che ho fatto per i Tame Impala può valere anche per altre tre uscite, di livello però, per i miei gusti, nettamente superiore. Si tratta di Protomartyr, Algiers e Caribou. Tutti e tre dischi piacevoli, coerenti con le carriere dei tre artisti, forse con Caribou che spicca in positivo per compattezza e decisione nella scelta del sound, più house, ma fatta con eleganza. Tutti e tre i dischi, però, si rivelano all’ascoltatore come poco più di un’inevitabile tappa del percorso sonoro dei vari artisti a questo punto delle carriere. Gli Algiers forse i più deludenti della mischia, che pur rimanendo all’interno dei propri canoni stilistici, realizzano il loro disco meno interessante. I Protomartyr son sempre loro, il disco è molto bello, ma non è Relatives In Descent e tantomeno The Agent Intellect.

Le “menzioni d’onore” di quest’anno son davvero troppe, quindi accelererò il commento a margine per ragioni legate alla paura di tediare, ma per molte delle prossime potrei spendere parole che occupano un articolo intero.

Uno di questi è Rough and Rowdy Ways di Bob Dylan. Se siete appassionati di Dylan, ma avete paura di venir delusi, è un ascolto imperdibile. Se non siete fan di Dylan, è probabile che ci troveremo in disaccordo comunque su tutto il resto dell’articolo, dunque ascoltate il disco e vedete se cambiate idea. Se siete fan della poetica a la Whitman, è un ascolto imperdibile, anche solo per I Contain Multitudes. Mi si potrebbe dire che scade spesso nel banale, nella schitarrata che colma il vuoto d’inventiva. Io non sono d’accordo e anche in quei punti dell’album in cui sono in grado di capire il punto di vista di chi lo pensi, 79 anni signori. 79 anni.

Raffica: Phoebe Bridgers, Waxahatchee, Adrianne Lenker: belli, bellissimi, ma non tra i migliori venti. Manca qualcosa. La locùra, probabilmente. Se dovessi compararli, si classificano nell’ordine in cui sono scritti. Fiona Apple e Land Of Talk. Tenere fuori dalla top 20 questi due è stato difficilissimo. Il primo colmo di hype e non senza motivo: creativo, armonico, mai banale, anche nei testi. Le stesse cose le potrei dire anche del secondo, che, per mio gusto personale, supera il primo a livello di picchi, con Footnotes a costituire una delle mie canzoni preferite dell’anno, ma cede il passo a Fiona per quanto riguarda la consistenza e anche il tempo di durata del disco.

Arrivano altre due band che mai avrei pensato di escludere dalla mia lista: Fontaines D.C. e Idles. Entrambi tra le scoperte che più mi hanno esaltato degli ultimi tre anni, arrivano due album che ho trovato un po’ deludenti, considerato anche il mio hype. Gli Idles sparano tutte le loro cartucce con i singoli che anticipano l’uscita dell’album, fra i quali vi sono alcuni dei pezzi più forti della band in assoluto, vedi Grounds, e quando arriva il disco completo, i pezzi che mancavano all’appello sono tutt’altro che indimenticabili e direi anche tutti piuttosto simili l’un l’altro. Anche il songwriting appare meno ispirato, con una dose sproporzionata di “rah-rah-rah”. Il fascino del pirata ok, ma così è pure troppo.

Anche i Fontaines sparano la loro cartuccia migliore prima dell’uscita del disco, con A Hero’s Death, la titletrack, che è sicuramente uno degli highlights sonori ed esistenziali dell’anno, con quel “life ain’t always empty” che rimane attaccato alle pareti del cervello a distanza di giorni. Oltre a quello, però, un lieve appiattimento rispetto a Dogrel, che porta buoni frutti dal punto di vista della compattezza, ma sicuramente non dal punto di vista dell’originalità. Avrei preferito il contrario. La paura è che si siano già fermati nella loro ricerca sonica e, ascoltando alcuni dei momenti del primo disco, sarebbe davvero un gran peccato. Sono in attesa di ricredermi.

I Tennis realizzano il loro miglior disco per distacco della loro carriera, ma rimangono pur sempre i Tennis. Non siamo negli anni ’60. Nnamdi risponde affermativamente alla domanda se sia lecito mischiare math rock, trap e pop con Brat e lo fa risultare pure una bomba, ma manca sicuramente di esperienza e di una parvenza di filo conduttore. Makaya McCraven realizza un tributo perfetto a Gil-Scott Heron in un disco che invece ha sì, dalla sua, la compattezza e la capacità di ordinare senza confusione un calderone di jazz come pregio principale.

Shabaka Hutchings si conferma come la figura più produttiva e di maggior successo nel panorama londinese presentando al pubblico un nuovo progetto jazz: Shabaka and the Ancestors. Anche questo esce dalla top 20 di striscio. Non c’è molto da dire se non: ascoltatelo sia che apprezziate il jazz, sia che non, è probabile che vi piacerà comunque. Molto meno tradizionale, ma ugualmente meritevole di lodi Rob Mazurek, che continua la sua ricerca nel jazz sperimentale uscendo con uno dei dischi più accessibili della propria discografia.

Four Tet esce con due album, l’ultimo giusto una settimana fa. Sixteen Oceans, uscito a marzo, rappresenta un passo indietro nella furia creativa dell’artista, ma Parallels restaura la fiducia nei fan. Il primo brano, Parallel I, da solo vale come sedici Sixteen Oceans. Menzione ai due brani prodotti con Burial e Thom Yorke, che son esattamente quello che ti aspetteresti mettendo assieme questi tre, ovvero una figata.

Spostandoci sul rap, Freddie Gibbs realizza, coadiuvato da The Alchemist, Alfredo, enciclopedia Gibbsiana. Freddie Gibbs puro ed essenziale, potrebbe dirsi. Regala qualche pezzo da collocare negli essentials del rapper dell’Indiana e in generale un progetto solido, ma non si può dire che il livello sia quello delle collaborazioni con Madlib. Invece, è da fine 2019 che dalla periferia di Buffalo pervengono uscite su uscite targate Griselda, collettivo che vede come esponenti principale Conway The Machine, Benny The Butcher e Westside Gunn. Gli ingredienti non son complessi: basi grezze, stile aggressivo, tematiche gangsta rap e tanta voglia di successo. Tutti gli artisti menzionati sono usciti con dei dischi nel 2020, ma se dovessi sceglierne uno: From King to a God di Conway The Machine.

Altri nomi degni di menzione sono: Fleet Foxes, certezza ritrovata anche con l’ultima uscita, Working Men’s Club, il cui futuro incuriosisce non poco, Porridge Radio, Sam Prekop, Jeff Parker, Terrace Martin, Kate NV, Dogleg, Jehnny Beth, Katie Von Schleicher, Deerhoof, Muzz, HAIM, Kamaal Williams.

Insomma, tutto questo e ancora una top 20 in arrivo.

2020, che anno tremendo. 2020 in musica, che anno pazzesco.

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