Ne parlano tutti, parliamone anche noi. Il 23 ottobre Netflix ha lanciato anche in Italia La Regina degli Scacchi, che ormai si trova al primo posto nella classifica dei contenuti più visualizzati da più di un mese. Ha riscosso un successo praticamente immediato dopo l’uscita e non ha mai smesso di crescere da quel momento. L’ennesimo esperimento Netflix riuscito alla perfezione, che tuttavia risulta leggermente differente rispetto ad altri successi degli ultimi tempi. Per esempio? Innanzitutto, La Regina degli Scacchi mette d’accordo un po’ tutti su un elemento: è una serie di qualità.
È difficile infatti rimanere indifferenti all’enorme cura spesa nella realizzazione delle atmosfere di fine anni ’60 e in generale all’allestimento sia fedele dal punto di vista cronologico, sia appagante dal punto di vista cromatico. Risulta ben riuscita anche la partenza a rilento che dipinge il background a porre le basi della vicenda, per poi alzare il ritmo già dalla seconda puntata, trasformando rapidamente la serie in un’abbuffata di colori e vicende pop, accompagnate da una scelta di brani ricchi di buonumore.
La serie racconta la carriera della bambina-prodigio e poi ragazza-prodigio Elizabeth Harmon e della scalata verso il trono nel mondo degli scacchi, un mondo nel quale entra da assoluta sfavorita, dovendo combattere prima il pregiudizio storico verso le donne e poi il dominio mai contrastato dei sovietici sugli statunitensi nella disciplina. Nel frattempo, le tematiche che si intrecciano attorno alla vicenda solo molte e più complesse, e riguardano, tra le altre, abbandono, morte, alcolismo, solitudine, perdono e ricerca di sé stessi.
Gli ingredienti più importanti di questa ricetta perfetta di Netflix probabilmente risiedono proprio nell’aver trovato un giusto connubio tra la trattazione di tematiche profonde e la necessità di proporre un prodotto fruibile a tutti, cercando di mettere d’accordo, estremizzando, i fan di Lars Von Trier da una parte e quelli de La Casa di Carta dall’altra. Il risultato è certamente una serie che risulterà smielata ad alcuni dei primi e noiosa ad alcuni dei secondi, ma che, a parer mio, si accaparra anche una buona fetta di pubblico di entrambe le fasce.
Buona parte del merito di tale bilanciamento va attribuito allo sguardo raggelante di Anya-Taylor Joy, in grado di gestire al meglio la difficoltà di rappresentare la mutevolezza di un personaggio che evolve in tre fasi della vita completamente diverse nell’arco di 7 puntate da un’ora ciascuna. La Taylor-Joy era già nota agli appassionati di cinema per due ottime interpretazioni in Split e in The VVitch. In particolare in questo secondo film, considerato tra i migliori horror del decennio, aveva offerto una straordinaria performance in una tenebrosa Inghilterra di metà Seicento, sotto la direzione da Robert Eggers (anche regista di The Lighthouse).
A completare il quadro vi è poi una scelta accurata degli attori protagonisti e dei personaggi di contorno, che vengono rappresentati non solamente per il proprio gravitare attorno alla protagonista, ma che riescono a riflettere una propria personalità indipendente. Oltre a ciò, una fotografia ed un allestimento scenico e costumistico assolutamente appagante, oltre ad una regia delicata e senza errori.
Volendo trovare dei punti deboli, la regia, pur rimanendo di un buon livello, non azzarda mai nulla di particolarmente speciale e alcune delle trovate più innovative, dal punto di vista dell’impiego di effetti speciali, appaiono per la verità leggermente goffe. Un altro punto debole, per così dire, fisiologico, risiede nella necessità di rappresentare un personaggio che affronta ferite interiori e che si evolve con esse in un tempo troppo limitato. Regia e attori hanno il merito di ridurre al minimo la frettolosità con cui tali salti di logica empatica vengono realizzati, ma, per gli amanti della coerenza, rimane una forzatura difficile da sopportare.
Si accetta tuttavia che questo è un’ingrediente ormai immancabile nella serialità targata Netflix, al quale anche gli spettatori maggiormente appassionati di un approccio cauto e meticoloso alle peripezie ed ai sentimenti hanno dovuto, a malincuore, abituarsi.
Va peraltro segnalato come il risalto dato ad un mondo raramente esplorato come quello del mondo degli scacchi sia stata una scelta allo stesso tempo inaspettata e vincente. Parte del merito va anche attribuito alla controversa figura di Bobby Fischer, campione mondiale nel 1972, le cui vicissitudini hanno indubbiamente ispirato il personaggio di Beth Harmon. Il tratto più discusso del campione americano di scacchi, la misoginia, è stato però ribaltato da Netflix dando vita ad una campionessa che con la propria mera esistenza smentisce quel dogma che tanto ha macchiato il retaggio culturale lasciato da Fischer.
E ora aspettiamoci un Natale in cui le vendite di scacchiere in tutto il mondo spiccheranno il volo.
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