“Mammina ti amo“. Così comincia l’ultimo messaggio inviato da uno dei ragazzi rimasti vittime del Killer di Orlando, inviato poco prima di morire. Eddie si trovava nel pub della carneficina realizzata dal 29enne Omar Mateen che ha aperto il fuoco uccidendo 50 persone. “Sto per morire, chiama la polizia. Sono nel bagno, lui sta per venire“. “Scrivimi ancora“. Così gli ultimi attimi di un giovane che sente da dentro il bagno la tremenda sparatoria che di li a poco lo avrebbe coinvolto. “Nel club stanno sparando“. La madre dall’altra parte dei messaggi vive così in modo drammatico la morte del figlio, terrorizzato mentre resta chiuso nel bagno. “Chiama la polizia, sto per morire. Chiamali mamma lui sta arrivando, sto per morire“. Alle 02:46 Eddie è ancora vivo ed è nascosto nel bagno nella speranza che la polizia possa arrivare prima che il carnefice lo trovi. “Ci ha preso“. La madre dopo aver chiamato la polizia corre davanti al Pub Pulse trovandosi in mezzo al caos di agenti, persone ferite riuscite a fuggire, il terrore. Gli manda un altro sms “Ok, stanno arrivando… la polizia è dentro, fammi sapere quando vedi la polizia“. Eddie riesce a rispondere alle 02.50: “sbrigatevi, lui è nel bagno con noi”. “Nel bagno delle donne“, poi da quel momento il silenzio.
Dalla scena allucinante di una mattanza si arriva fino a dentro casa del killer, riuscito appieno nel suo tentativo di uccidere i clienti del locale.
Lì un manuale che tratta di «Questioni cruciali per il buon musulmano» sul bancone della cucina insieme a stoviglie ancora da lavare. Una casa lasciata per uscire e poi tornare, niente che faccia pensare che sarebbe andato a compiere un eccidio in nome di una religione o di chissà cosa altro. Eppure si lascia alle spalle 50 morti e 53 feriti, in nome dello Stato Islamico. “Mio figlio non ha mai dato segni di estremismo, parlavamo di religione, frequentava la moschea, ma come ogni buon fedele”, spiega il padre, Seddique Mateen, emigrato in Usa dall’Afghanistan dopo l’invasione sovietica.
MA i suoi viaggi in Arabia Saudita, il presunto contatto con Moner Mohammad Abusalha, kamikaze che si è fatto esplodere in Siria, e l’ammirazione sempre presunta per Marcus Dwayne Robertson, l’imam che predicava l’odio contro i gay, ci dicono molto. Le indagini intanto proseguono e possono esserci altri implicati nella strage.
Nella sua casa, viveva con la seconda moglie e la figlia. Una cosa che non mostra nulla che faccia pensare a una possibile fuga dopo la strage. Sulle pareti foto su foto, normali, di un papà che ama la figlia, la famiglia. “I love my family” la scritta su una cornice che lo ritrae abbracciato e sorridente con la sua famiglia.
Il killer lavorava come guardia giurata per la società G4S, aveva un regolare porto d’armi ed era in possesso di pistola regolarmente denunciata. Ma per la strage si era procurato non si sa come un fucile d’assalto. Intanto della moglie e della figlia non si sa nulla, scomparse nel nulla.
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