La piattaforma Netflix già da qualche tempo sta mostrando un notevole interesse nei confronti del mondo del calcio, producendo in prima persona diverse serie aventi questo sport come tema principale o quantomeno come fulcro attorno al quale le varie trame si sviluppano.
A questo proposito vengono dunque subito in mente gli esperimenti, in gran parte riusciti, delle miniserie Tv che hanno permesso agli appassionati di pallone di seguire da una posizione privilegiata- dall’interno degli spogliatoi o dai campi di allenamento per esempio- un’intera stagione della Juventus o del Sunderland (di “Sunderland till I die” è addirittura uscita da poco la seconda stagione, a riprova del fatto che la scommessa dei produttori Netflix si è rivelata abbastanza di successo).
Al mese scorso risale anche il film “Ultras”, girato dal giovane regista napoletano Francesco Lettieri, che però non sembra al momento aver fatto breccia nel cuore dei critici televisivi, oltre al fatto che numerose critiche sono piovute dalla stessa tifoseria organizzata del Napoli e dalla madre di Ciro Esposito, il tifoso partenopeo che rimase ucciso negli scontri avvenuti a margine della finale di Coppa Italia del 2014 tra Napoli e Fiorentina.
Una diversa considerazione invece spetta alla nuova serie targata Netflix, ossia “The English game”. In una stagione composta di sole sei puntate, i creatori Julian Fellowes, Tony Charles e Oliver Cotton sono riusciti a narrare con coerenza e attenzione (seppur con qualche inesattezza storica volta a romanzare il contenuto complessivo) quelli che sono stati i primi passi del calcio professionistico in Inghilterra.
La storia è ambientata negli anni ’80 del diciannovesimo secolo prevalentemente nella cittadina di Darwen, situata nella regione del Lancashire, celebre ai tempi per essere una solida base della working class. Ed è proprio dallo scontro – idealistico prima, calcistico poi- tra la working class e l’alta borghesia inglese che tutta la vicenda trae spunto.
Così, oltre a ripercorrere gli eventi che hanno provocato la trasformazione del Football da passatempo riservato a gente facoltosa a sport professionistico, “The English game” si pone l’obiettivo ben più ambizioso di evidenziare il differente tenore di vita affrontato da queste due categorie, per poi fornire una raffigurazione del calcio quale fenomeno in grado di assottigliare il gap intercorrente e permettere finalmente ai lavoratori delle industrie di competere ad armi pari, almeno in questo ambito, con i ricchi banchieri dell’Inghilterra della Victorian Age.
Ed ecco allora che la serie coglie in pieno il significato assunto dal calcio in quel momento particolare storico: il cambiamento epocale non consiste tanto nel fatto che da quel momento in poi viene ammessa la possibilità che i calciatori vengano retribuiti per le proprie prestazioni (fattore da non sottovalutare affatto, in quanto prima della riforma gli esponenti della working class erano spesso costretti a saltare allenamenti e partite perché impegnati con il vero lavoro, quello in fabbrica), bensì bisogna individuarlo nel riconoscimento del football quale strumento utile a costruire passioni e speranze, anche e forse soprattutto in persone che non avevano mai conosciuto prima di quel momento né le une né le altre.
Le parole pronunciate da Arthur Kinnaird, uno dei due protagonisti della storia, durante la puntata conclusiva racchiudono il senso della serie. Egli infatti dichiara con convinzione che il calcio è destinato a qualcosa di grande, di molto grande, e che non è pensabile arrestarne l’evoluzione e l’espansione, sia geografica che sociale.
Di conseguenza e in conclusione, “The English game” è fortemente consigliata a tutti coloro che sentono che questo sport porti con sé qualcosa che va ben oltre i 90 minuti, in quanto esso stimola le emozioni più intime e profonde della natura dell’uomo e proprio per questa ragione riesce nel complicato intento di appianare le disparità che invece vengono create su un livello diverso, artificiale, quale quello sociale, politico o economico.
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