In un articolo di qualche giorno fa avevamo parlato di “Immuni”, l’app per dispositivi mobili ideata dal Governo italiano – attraverso il Ministero della Salute- volta a rintracciare gli spostamenti delle persone entrate in contatto con persone infette, così da contenere la diffusione del Coronavirus.
In quella sede avevamo sottolineato che l’utilizzo dell’application non sarà obbligatorio e che “Immuni” non effettuerà alcuna geolocalizzazione degli individui, limitandosi invece a ripercorrere a ritroso i movimenti dei potenziali contagiati. Inoltre, il Governo ha assicurato che i dati raccolti saranno cancellati dai server predisposi entro il 31 dicembre del 2020, garantendo in tal modo che le informazioni ottenute non potranno essere trattate in futuro per ragioni diverse dalla gestione dell’emergenza del Covid-19.
In conclusione di tutte queste osservazioni, avevamo pertanto affermato che quanto stabilito dal Governo non vada a contrastare col diritto alla privacy e alla segretezza.
Ribadito ciò, può rivelarsi interessante spostare l’attenzione al di là dei confini del nostro paese, cosicchè possiamo apprendere quanto sta accadendo altrove in giro per il mondo. Infatti, comparare l’esperienza italiana con le misure attuate da altri governi risulta fondamentale per comprendere al pieno la complessità di questo tema.
Non avendo ovviamente il tempo per analizzare le situazioni di tutti gli Stati del pianeta, prenderemo le mosse da i casi più significativi agli scopi della nostra indagine: quello cinese, israeliano e sudcoreano.
Il governo cinese ha ordinato, in aggiunta all’application per cellulari, anche l’installazione di centinaia di milioni di telecamere su tutto il territorio per tenere sotto controllo gli spostamenti dei cittadini, realizzando dunque quel gigantesco “Big Brother’s eye” di cui abbiamo sentito parlare nelle narrazioni più distopiche. Oltre ai diversi mezzi tecnologici utilizzati, ciò che differenzia i controlli cinesi da quelli italiani consiste nei fini per i quali è possibile ricorrere a tali misure di rintracciamento.
Le autorità cinesi infatti, attraverso proprio la geolocalizzazione (ricordiamolo ancora una volta, vietata in Italia), possono individuare la posizione di una persona sottoposta all’isolamento obbligatorio H24. È palese quindi che le modalità di vigilanza cinesi sono di gran lunga meno garanti di quelle che si prospettano in Italia.
Un po’ meno incisive di quelle cinesi sono invece le misure previste in Israele e Corea del Sud.
In entrambi i paesi infatti, al momento, non risulta che siano state posizionate telecamere o altri dispositivi simili. Tuttavia anche in Israele e Corea del Sud le apps messe a disposizione dai rispettivi governi sono dirette alla geolocalizzazione della popolazione durante tutte le ore del giorno. In questo modo quindi le forze dell’ordine sono in grado di rintracciare eventuali violazioni della quarantena da parte dei cittadini.
Misure di questo tipo possono avere senza dubbio un effetto dissuasivo molto forte sulle persone, in modo tale da ridurre enormemente il rischio che gli infetti o i presunti tali possano girare per le strade e diffondere ulteriormente il virus.
Al contempo però è palese, riprendendo i dibattiti in materia svolti in Italia nelle ultime settimane, che un controllo così invasivo porti con sé quantomeno il ragionevole dubbio che esso possa contrastare col diritto alla privacy individuale.
D’altronde è intuibile che le differenti tradizioni giuridiche e culturali intercorrenti tra questi paesi e l’Italia faccia sì che in questi ultimi via sia una minore sensibilità rispetto alla garanzia e alla tutela dei diritti, soprattutto nel caso in cui sui piatti della bilancia vi siano il sacrificio di una libertà individuale da un lato, e la difesa della salute pubblica dall’altro.
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