Sembra passata un’eternità. Boris, la serie dentro la serie, la serie su “Occhi del cuore 2” si è conclusa quasi un decennio fa. Purtroppo proprio l’anno scorso un membro fondamentale del cast, Roberta Fiorentini, che interpretava la sfaticata, raccomandata, volgare e vorace assistente di Regia Itala ci ha lasciato.
Il lascito di Boris è stato purtroppo scarsamente raccolto, una serie come questa in Italia non è mai stata prodotta. Una serie dall’ironia irriverente e dal cast corale, visto anche all’infuori dell’Italia su questi livelli soltanto in masterpieces come The Office e la sua versione americana guidata da Steve Carrell.
Un ritratto quasi fantozziano sul mondo della televisione italiana, sul mondo della “fiction”, mostrando le contraddizioni, il nepotismo, il talento sprecato. Il tutto condito e reso gradevole come poche altre opere da un arguto senso dello humor, un umorismo secco, senza mostrare stravolgimenti emotivi, sempre nelle righe, da riferimenti continui alla società e alla cultura popolare (il “lui” di cui parla Arianna, interpretata da Caterina Guzzanti, non era altro che Silvio Berlsconi). La natura paradossale delle situazioni trasforma una recitazione convenzionale in un capolavoro del grottesco.
Da un regista svogliato ma pieno di talento, interpretato da Francesco Pannofino, Renato “René” Ferretti, arrivando allo “schiavo” Lorenzo (Carlo De Ruggieri), passando per l’esilarante tecnico di fotografia Biascica (Paolo Calabresi), romanaccio e manesco. Un microcosmo di personaggi estremamente profondi e sfaccettati, tutti partecipi, tutti protagonisti di una surreale tragi-commedia umana.
Il tutto, mai nascosto neanche dalla geniale mente che ha partorito Boris, Luca Vendruscolo, l’autore principale, in parte inteso come un enorme tributo alla sitcom americana Scrubs-Medici ai primi ferri: il titolo dell’episodio pilota di entrambe le serie si chiama “Il mio primo giorno”. I rapporti tra i personaggi ricalcano quelli tra i dottori dell’Ospedale Sacro Cuore. Certo, la componente drammatica era molto più potente in Scrubs, dato il contesto ma guardando Boris, in particolare Alessandro (Alessandro Tiberi), non si può non pensare al ciuffo spensierato del Dottor John Dorian “JD”.
Il fulcro della serie è il rapporto turbolento tra la troupe protagonista e “la rete”, percepita come un essere astratto e superiore, dove il “Dottor Cane” comanda come un despota uno sciame di sceneggiatori “ammaestrati”, intenti a creare storie dal dubbio gusto per far sì che piacciano alle persone anziane che guardano gli “Occhi del cuore 2”. I quattro sceneggiatori usano letteralmente quattro tasti a disposizione per portare avanti una trama insulsa che deve solo “fare da sottofondo mentre si cucina”.
La sciatteria fa da padrona per tutte le riprese della serie dentro la serie: il direttore della fotografia Duccio (Ninni Bruschetta) utilizza una sola modalità, “smarmella”, “apre tutto” accecando la troupe. Gli attori vengono chiamati con epiteti irripetibili, con il protagonista di Occhi del cuore 2 Stanis La Rochelle (Pietro Sermonti) ossessionato dall’apparire meno italiano e più cosmopolita, frettoloso di abbandonare una produzione mediocre per fare il salto nel mondo del grande schermo.
Come mai non è mai stato più fatto qualcosa come Boris (salvo il film sequel)? Questa è la domanda che attanaglia gli appassionati, che come risposta vorrebbero una quarta stagione della serie, considerata, soprattutto dopo la morte di Roberta Fiorentini, un’ipotesi piuttosto improbabile. Infatti era proprio sulla chimica di squadra dei personaggi che si reggeva la struttura di Boris, avrebbe poco senso andare avanti senza un personaggio che tra l’altro costitutiva uno degli elementi comici fondamentali.
La storia in Boris è infatti tutto sommato messa in secondo piano rispetto ai personaggi. Difficile progredire con una narrazione articolata in una serie che racconta di una fiction la cui storia è volutamente di pessima qualità. Anche questa immobilità narrativa però rafforza la frustrazione e l’incapacità di miglioramento della fiction italiana. Una fiction ancorata a stilemi decennali, ricette collaudate che fanno piacere “alla rete” e non disgustano ma né entusiasmano il pubblico.
Boris ha dissacrato bonariamente questi elementi, queste contraddizioni e le ha trasformate in alcuni dei momenti comici più memorabili nella storia della televisione italiana. Diventato presto un cult, Boris ha plasmato il senso dell’ironia e il sarcasmo di un’intera generazione trasformandosi in un punto di riferimento. Un elogio alla leggerezza e all’esistenza effimera del trashume televisivo. Una celebrazione e accettazione del ruolo sistemico della non-bellezza, sintetizzata efficacemente da un’espressione di René Ferretti, decisamente vernacolare.
Per chi ha visto Boris, la memoria farà subito il suo lavoro e la ripescherà, per chi non ha ancora avuto questo piacere, il consiglio è di recuperare immediatamente questo capolavoro di spensieratezza e di farsi travolgere da tre stagioni (e per i meno ortodossi, perché no, anche un film) di risate.
Non dimentichiamoci la grottesca sigla cantata da Elio e le storie tese.
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