Nel 1872, un ventisettenne Friedrich Nietzsche, professore a Basilea, scriveva alcune conferenze di critica riguardo al futuro dell’insegnamento superiore tedesco, in particolar modo con riferimento al “tema di tedesco”, che può esser senza fatica trasposto nel nostro “tema di italiano”.
Il contenuto di tali conferenze, contenute nel saggio pubblicato da Adelphi Editore, intitolato Dell’avvenire delle nostre scuole, viene platonicamente presentato con la finzione letteraria degli insegnamenti del maestro filosofo impartiti ai propri discepoli. Nietzsche, infatti, utilizza l’excursus narrativo di una gita scolastica con un amico e collega universitario e dell’incontro casuale con un filosofo per esprimere la propria pessimistica e spaventata visione riguardo al futuro delle scuole tedesche.
Innanzitutto, vengono snocciolati i due generali pericoli collegati alla scuola tedesca: il fatto che vi sia impegno nell’allargare la fruibilità della cultura a un maggior numero di individui possibile (l’estensione) ed il fatto che la cultura sia derubata della propria sovranità, per venir messa ai servigi dello Stato (l’impulso a sminuirla). Dunque, la critica del filosofo tedesco muove soprattutto dall’eccessiva specializzazione e pragmatizzazione dell’insegnamento scolastico, nella convinzione che questo sia divenuto necessario a formare individui le cui doti siano pronte ad essere adoperate dallo Stato, anziché individui che alimentino la propria cultura incondizionatamente.
È interessante poi l’attacco diretto al tema di tedesco e al giornalismo, visti come gli orrori che hanno accelerato la separazione tra la cultura del suo tempo e quella classica, per via della profanazione che questi compiono rispetto alla lingua. Diviene infatti fondamentale per Nietzsche la scelta del linguaggio e il rispetto delle parole dei grandi scrittori tedeschi, come Goethe e Schiller, secondo lui violati dai neologismi e della superficialità con cui il linguaggio viene trattato dai giornalisti del suo tempo.
Nietzsche ritiene che il rapporto corretto con la lingua possa scaturire solamente da uno studio profondo dei classici e da una meditazione riguardo all’utilizzo dei termini tale per cui l’individuo diviene autonomamente cosciente in autonomia di come vada utilizzata la lingua, in una sorta di illuminazione progressiva di una dote così naturale, ma così impegnativa di conquistare.
Qui entra in gioco il tema di tedesco. Nietzsche è convinto che portare i giovani, in età liceale e dunque troppo acerbi per aver acquisito quello studio e meditazione sufficienti a scriver correttamente, a comporre un testo in cui viene richiesta un’autonoma elaborazione critica, non può che risultare in un’inevitabile “barbarie linguistica”. Tale barbarie avrebbe l’effetto poi di interrompere, o comuqnue di complicare lo sviluppo culturale dell’individuo, il quale viene colto da un incredibilmente umano senso di vanità per l’aver prodotto autonomamente un testo. Tale sentimento sarebbe detrimentale alla crescita interiore in quanto comporta una soddisfazione prematura della propensione creativa.
Ecco che allora, nella narrazione, Nietzsche e il compagno, che avevano intenzione di suggellare con la loro gita la gioia dell’erudizione ottenuta con il percorso universitario, si trovano a fare i conti con la prospettiva che il modo in cui il loro percorso è stato costruito sia un limite alla potenzialità di giungere ad uno stato di conoscenza avanzato.
È senz’altro un testo affascinante, in cui un giovane filosofo, 160 anni fa, effettua riflessioni che tutt’ora possono essere considerate attuali, con il sempreverde tema dell’impoverimento della qualità dell’istruzione dato dall’ampliamento dei soggetti destinatari di questa e con il tema della cultura a servizio dello Stato, per cui ciascuno è esperto in uno specifico ramo e ignorante per quanto riguarda tutto il resto, con l’inevitabile estinzione del tuttologo, dell’erudito. Estinzione che può sembrare inevitabile in un mondo rapido e globalizzato, ma che pone dubbi sull’opportunità di seguire questa strada, dimentica dello studio come fonte di arricchimento personale, a favore dell’utilità pratica dettata dalle leggi di mercato.
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