Tutti i santi giorni a gridare lʼorario in quel momento, perché il tempo sʼera fermato in quel punto. Per questo i bambini di borgata la chiamavano la signora che ora è?, con lʼapostrofo incluso.
Nellina Straguzzi saliva le scale di marmo che portavano sul terrazzo della palazzina. La frescura di un dolce vento le faceva apprezzare i tetti scassati delle stamberghe. Le tegole erano tutte frastagliate, e veniva da pensare quanta pioggia si sarebbe infilata in casa. Lʼammasso di casupole in pietra lavica la riportava a ricordi confusi di quandʼerano abitate, allʼepoca in cui si respirava unʼaria pestilenziale nel quartiere, con gli avvinazzati che orinavano ad ogni angolo di strada. Un gelso sbucava da un giardinetto contiguo. I rami dellʼalbero sconfinavano in terrazza ed i frutti purpurei le macchiavano le dita rugose. Ne riponeva alcuni dentro una cesta di vimini e solo ogni tanto ne portava qualcuno alla bocca. Lʼimpatto iniziale era asprigno, evidenziato da una smorfia; ma quando si abituava a quel gusto, cominciava ad ingozzarsi. Sulla stradina di sotto, sopra lʼasfalto devastato di buche, giocavano i piccoli del quartiere, e Nellina che chiedeva a gran voce lʼorario. Quelli le rispondevano sempre allo stesso modo: le dodici e venti. Lei raddrizzava il busto e spariva dietro il parapetto. La puntualità della domanda divertiva quei ragazzetti con le ginocchia sbucciate, gli indumenti cenciosi, le mani unte di grasso, che non conoscevano il motivo di quella richiesta strillata al vento, tutti i giorni alla stessa ora. Dapprima la risposta rimbalzava da una bocca allʼaltra, con un filo di voce, per beffarsi di lei, fin quando qualcuno ribatteva allo strillo: le dodici e venti!
E come sempre quei ragazzi non si capacitavano, scuotevano la testa interdetti, facevano smorfie, sparavano ipotesi, chiedendosi tutte le volte come facesse ad azzeccare lʼorario. Pregavano i genitori di svelar loro il mistero, imitandone con forza gesti e postura, soprattutto quello nellʼatto di sporgersi, imitando la schiena incurvata ed il collo allungato, raffigurando la figura gracile ed esangue, e canzonando la voce stridevole, che sʼarrestava nelle orecchie, come a zufolare. I genitori rispondevano convinti a quella preghiera, ma facendo spallucce, e dopo chiarivano il concetto battendo lʼindice in fronte. Lʼindomani, alla stessa ora e minuto, Nellina sʼaffacciò. Masticava un succoso ficodindia e chiese lʼorario. Nessuno di sotto rispose. I ragazzi stavano con le teste reclinate e gli occhi al cielo, abbagliati dal sole, e le braccia conserte. – Che ora è? Ripeteva la vecchia intronata. – Che ora è! Che ora è! Urlava dallʼalto. Nessuno si dava pensiero di accennare risposta. Si guardavano fra loro, tappando il riso con le mani insozzate. Finalmente, il più grande del gruppo urlò: – Le dodici e venti, sempre, tutte le volte! Ogni giorno, signora Straguzzi! Nellina drizzò la schiena, ringraziò e sparì. Le urla del giovinetto si propagarono nello spiazzo del condominio e qualcuno gridò di abbassare la voce, gli schiamazzi a casa propria.
La gracile donna, minuta ed anemica, con gli occhi sporgenti come il pesce palla, viveva della pensione dʼinvalidità del povero figlio. Vedova da tanti anni, ci pensava lei ad accudire Lorenzo, che comunicava movendo la palpebra destra. Ogni giorno ad aprirgli la bocca ed infilargli pappine, come a un infante. Se lo sbaciucchiava tutto, in guancia ed in fronte, portandosi la testa sui seni. Poi sussurrava tenere frasi, del tipo bello di mamma; mentre quello la fissava senza espressioni, come una mummia. Si sedeva accanto e gli mostrava le fotografie di un tempo, quelle della casa al mare, coi pranzi opulenti. Cʼera il nonno a bocca aperta e gli spaghetti per aria; la nonna ad appiccare il fuoco sulla griglia; zio Nino che beveva il vino dal fiasco; il cocker che cacava sulla duna di sabbia; il cugino Andrea che addentava la fetta dʼanguria; zia Tina che infornava scacciate; gli amici che si lanciavano secchiate di ghiaccio. – Questo sei tu, sei tu! Diceva Nellina, battendo il dito sulla foto e facendo il conto degli anni, ogni volta che ne sostituiva una con lʼaltra. – Qui ne hai 5, qui 7 e qui 12! Le brillavano gli occhi a ripensare a suo figlio, che prima si moveva e saltellava, adesso non più. Se tentava un tuffo in mare, soltanto con la capriola. Adesso impalato, come nellʼalbum di foto. Un blocco di ghiaccio, proprio così. Per significare no, chiudeva due volte la palpebra. Per significare sì, la chiudeva tre. Nellina tremolava quando chiedeva Vuoi bene alla mamma, ché la mummia Lorenzo, un tempo impiegato alle pompe funebri, 44 anni a dicembre, la moveva al solito modo. Allora se lo mangiava con gli occhi, ammirandolo tutto, puntando gli occhi cisposi a quel mento aguzzo, al naso appuntito, alla mascella robusta, alla nuca sporgente, ai capelli lisciati, portati su un lato. Dopo cedeva allʼimpeto di stringerselo al petto; la pelle sʼarricciolava tutta e sʼarrossava per la pressione, ed il ciondolo della Vergine Maria oscillava per gli abbracci, producendo un bel tintinnio.
Se lʼorologio in soggiorno dava ogni volta la sveglia, la vecchia gli dava uno sguardo e sussurrava le dodici e venti. Lui chiudeva lʼocchio veloce, per significare qualcosa. Quattro anni prima, Nellina Straguzzi era in cucina a far bollire le uova, a rigirare il sugo, a sistemare la spesa e diede unʼocchiata allʼorario; poi, dʼun tratto, sʼaccorse di unʼombra sparsa sul muro. Può darsi non subito, ma poco dopo gridò. Quando unʼaltra santa mattina sʼaffacciò di nuovo e dallʼalto scorse i ragazzetti come puntini, Nellina strillò sputacchiante la solita richiesta, ché i peduncoli dei gelsi le finirono in bocca. I ragazzetti decisero di non risponderle più, esausti dalla petulanza di una vecchia isterica. Lei li supplicò di gridare, per la sordità incombente. Ottenne risposta dopo venti preghiere. Fu ovviamente un sospiro di sollievo e di prese per il culo. La vecchia si ritrasse sospirando, un giorno ancora, movendo il braccino per ringraziare. Scese le scale, entrò in casa e raggiunse il figlio, al quale fece una carezza. Lorenzo sbatté la palpebra decine di volte, per arricchire di parole entusiaste quei pochi segnali. Nellina non decifrò, ma sorrise di gusto. Si diresse alla finestra della cucina, come da sempre dopo la permanenza in terrazza. Si sporse a guardare la viuzza di sotto. Non vide nessuno. I ragazzi erano spariti. Solo la strada e le auto in sosta. Se ne stava con le manine secche poggiate sul davanzale, alle quali volgeva sguardi fugaci, e spesso si carezzava le macchioline amaranto dei capillari distrutti. La cosa davvero importante è che Lorenzo non era vicino alla siepe: non era possibile, perché era sempre in salotto. Per fortuna, stava buono e impalato. Nellina sapeva che non poteva più andare lassù, e sapeva che lʼombra del figlio le era poco distante, spalmata in salotto e non in cucina. La rincuorava non vedere per aria i colori degli indumenti indossati quel giorno. Lo sapeva che fu la siepe piena di bacche: fu quella a lenire il botto tremendo. Da allora, Nellina Straguzzi lʼammirava dallʼalto, contemplando la sua rigidezza, la sua forma squadrata, la sua potatura perfetta; e lo faceva allungando il collo, come lo struzzo. Quando sovente le capitava di fiancheggiarla, si comportava come a mostrarle un dovuto rispetto, cedendo allʼirresistibile spinta di coglierne i frutti carnosi, per portarli di sopra, per portarglieli in bocca; e lui, povero figlio, che quella volta mirò al marciapiede e terminò di fianco, pare ancor oggi che apprezzi.
Marzo / Aprile 2012
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