Si, sono a Roma. Che fate?

Apro gli occhi e mi sorprende il letto vasto, immobile.
Dagli scuri filtra un po’ di luce ma c’è silenzio.
Mi alzo per fare pipì e c’è un water ampio e comodo, stabile, basta un tocco e venti litri d’acqua travolgono i tuoi bisogni senza scampo.
La sera preparo la cena, sola in cucina.
Non ci sono gli oblò quadrati con gli angoli smussati che si inondano di luce all’alba e lasciano vedere un pezzetto d’albero.
Non c’è la cuccia sghemba, accoccolata a poppa, che ti culla ondeggiandoti sotto.
Non c’è il rumore del boma che oscilla a destra e sinistra con le ondine ne’ quello delle cime il cui ultimo tratto, non fissato, ciondola al vento.
Non c’è fuoribordo, dove fare la pipì liberamente, ancora nascosti dal buio della notte, e la doccetta dolce per sciacquarsi.
Ne’ c’è il bagnetto angusto, dove tocca pompare per caricare acqua e scaricarla e occorre un po’ di ostinazione e di tenacia per scacciare i bisogni.
Non ci sono più gli amici coi quali si armeggia nel cucinino a vista della dinette, si fa il passamano su e giù dalla scaletta per allestire il tavolo a poppa e poi si lavano i piatti con l’acqua di mare, centellinando quella dolce.
Sono tornata a casa.
E non c’è più il romantico, contemplativo, seducente disagio della barca che ti tiene avvinto all’universo e alla naturalità, immerso nella vitalità senza rifugio

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