La presenza di un eccesso di zuccheri negli alimenti è un problema che spesso torna alla cronaca per poi essere poi superato da altre problematiche via via più d’interesse (di chi poi non si sa bene). L’allarme è stato più volte lanciato, soprattutto per i più giovani, bombardati da messaggi che inducono al consumo di prodotti (sia cibo che bevande) piene proprio di zuccheri che possono, nel tempo portare a patologie serie. In tal senso, una cosa pensata è stata proprio quella di inserire nella manovra di bilancio la famosa sugar tax.
Generalmente in seguito alla forte azione di lobby delle potenti aziende che producono bevande gassate e altri prodotti ad alto contenuto di zucchero, ogni volta che la proposta viene vociferata, sparisce. Nella compagine di quanti fanno opposizione compaiono anche i produttori di zucchero italiani, anche se solo il 20% circa dello zucchero consumato in Italia è di produzione nazionale. Siamo quasi certi che anche questa volta la storia si ripeterà.
Secondo un recente rapporto dell’Unicef, in Italia oltre il 35% dei bambini e adolescenti (dai 5 ai 19 anni) sono in sovrappeso o obesi, il dato peggiore in Europa. Tra le cause del problema, sicuramente c’è l’eccesso di zuccheri che gli italiani assumono ogni giorno in quantità mediamente doppia rispetto a quanto consigliato dall’Oms (25 grammi, l’equivalente di 5 bustine di zucchero). Il contenuto di una sola lattina di soft drink supera ampiamente la dose consigliata.
La gravità della situazione è evidente e non va sottovalutata. E se le tasse non sono mai di per sé una buona soluzione per risolvere i problemi e tanto meno una scelta strategica, bisogna comunque riconoscere che le esperienze dei Paesi in cui è stata applicata la sugar tax dimostrano un conseguente, notevole calo dei consumi di soft drink, come avvenuto in Francia, Norvegia, Messico, Cile e Ungheria. In Gran Bretagna invece la tassazione è progressiva rispetto alla quantità di zuccheri aggiunti, e ciò ha portato le aziende produttrici a ridurre il tenore zuccherino nelle bibite.
A Berkeley, San Francisco, Oakland e Seattle, negli Stati Uniti, le entrate derivanti dalle tasse sulle bevande zuccherate vengono utilizzate per pagare programmi di nutrizione e attività fisica, frutta e verdura fresca per i destinatari del programma di assistenza nutrizionale supplementare, e altro ancora.
L’esempio statunitense è quello più efficace, perché più incisivo nel lungo periodo. Anche in Italia la sugar tax sarebbe un buon punto di partenza, ma deve far parte di un progetto più ampio: lo zucchero non è la sola sostanza da mettere all’indice, occorre ridurre in generale il consumo di cibi ultra-processati, eccessivamente ricchi di grassi e sale. Gli zuccheri poi non devono poter essere sostituiti con altre sostanze edulcoranti, alcune delle quali addirittura sconsigliate alle donne in gravidanza e ai minori di 12 anni.
È necessario accompagnare l’introduzione della sugar tax con norme che ne destinino i proventi all’inserimento nei programmi scolastici di percorsi di educazione alimentare e sensoriale, per abituare il palato a gusti naturalmente dolci, nonché a progetti di miglioramento delle mense scolastiche. In questo modo, la tassa così impiegata non si configurerebbe come un ennesimo balzello, ma anzi sarebbe un mezzo efficace per intervenire alla radice nella lotta a sovrappeso e obesità infantili, con un effetto di miglioramento della prevenzione a tutto vantaggio del sistema sanitario.
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