E’ andata in scena a Los Angeles, ventiquattro giorni dopo il tragico indicente di elicottero che ha portato via Kobe e Gianna “Gigi” Bryant, Alyssa, Keri e John Altobelli, Payton e Sarah Chester, Christina Mauser e il pilota Ara Zobayan la tanto attesa commemorazione pubblica delle vittime. Ventiquattro come il numero che la leggenda dei Los Angeles Lakers ha portato sulle sue spalle per la seconda parte della sua carriera. Una data non scelta a caso per omaggiare ad un vero e proprio idolo cittadino, la cui morte ha straziato non solo il mondo dello sport ma chiunque si identificasse nella sua incredibile etica del lavoro e perseveranza.
Lo Staples Center, da più di vent’anni tempio dello sport nella città degli angeli e casa di Kobe Bryant per tutta la sua lunga carriera, che poco prima aveva ospitato il “superclassico” Los Angeles Lakers contro Boston Celtics (forse la rivalità più sentita in tutto lo sport americano), si è riempito di 20.000 tra tifosi, amici e celebrità. Sul palco al centro del palazzetto, guidati dallo straordinario Jimmy Kimmell, sono passati amici, agenti, avversari, persino l’idolo d’infanzia di Kobe Bryant, Michael Jordan. Si è ricordato il suo legame fortissimo con l’Italia, dei sui grandi successi sportivi, dell’amore dedicato alla famiglia dopo il ritiro nel 2016, il suo grande impegno a favore della pallacanestro femminile.
Ovviamente non sono potute mancare le due persone più attese. La prima, sua moglie Vanessa, che oltre a un marito ha perso anche una figlia, ha aperto una finestra sulla vita del Kobe papà e del Kobe marito, che per noi, che l’abbiamo sempre visto in campo con una palla a spicchi tra le mani, sono sempre state un mistero. “Dio sapeva che Kobe e Gigi non avrebbero potuto stare su questa Terra uno lontano dall’altra. E così se li è portati in paradiso assieme”. Queste le parole di Vanessa, spesso commossa e costretta ad interrompersi per via della profonda commozione, subito sostenuta e abbracciata dal pubblico di Los Angeles.
Scesa dal palco Vanessa Laine Bryant, dopo esibizioni musicali (tra queste quelle di Alicia Keys e Christina Aguilera) e vari interventi sale sul palco un omaccione di 2 metri e 16 centimetri da Newwark, Shaquille O’Neal. Per i meno avvezzi al mondo della Nba, Kobe e “Shaq” all’alba degli anni 2000, guidati dal “coach zen” Phil Jackson, colui che aveva creato la leggenda di Michael Jordan, avevano letteralmente dominato ogni stagione, vincendo tre campionati di fila (fatto molto inusuale in un sistema sportivo come quello americano, che mira all’alternanza ai vertici). Quando poi le vittorie erano venute a mancare i due amici si allontanarono, e cominciò una sequela infinita di speculazioni sulla natura del loro rapporto. I Los Angeles Lakers dovevano scegliere chi tenere, e alla fine fu Shaq a lasciare la California per l’altrettanto soleggiata Miami. Anche lui commosso, paragona la loro relazione a quella tra John Lennon e Paul McCartney (sfoggiando una metafora à la Pinguini Tattici Nucleari).
Il toccante evento, trasmesso in Italia, un paese come detto che occuperà sempre un posto speciale nel cuore del “Black Mamba”, da Sky Sport e da Nba League Pass, si è concluso nell’unico modo possibile: la proiezione del cortometraggio animato “Dear Basketball”, tratto dalla sua lettera di addio alla pallacanestro e che gli fruttò nel 2018 addirittura un Premio Oscar. L’ultimo atto di questa commemorazione non poteva che essere un messaggio di sconfinato amore verso il gioco che lo ha reso celebre.
Una serie di “forever”, trasmessi sul maxi-schermo dello Staples Center, vanno a testimoniare quanto il mito di Kobe Bryant andasse ben oltre le sue straordinarie doti atletiche. Un uomo che con la sua mentalità, la “Mamba Mentality” (sapientemente resa un prodotto commerciale), ha creato un’icona culturale per chiunque avesse guardato con interesse l’incredibile mondo degli sport americani. Il suo testamento, inconsapevolmente, lo ha lasciato alla cerimonia di ritiro della sua divisa, nel 2017, proprio allo Staples Center:
<<Those times when you get up early and you work hard, those times when you stay up late and you work hard, those times when you don’t feel like working, you’re too tired, you don’t want to push yourself, but you do it anyway. That is actually the dream. That’s the dream. It’s not the destination, it’s the journey>>
<<Quelle volte quando ti svegli presto a lavori sodo, quelle volte che stai alzato fino a tardi e lavori sono, quelle volte che non ti va di lavorare, sei troppo stanco, non vuoi spingere, ma lo fai lo stesso. Questo è il sogno. Questo è il sogno. Non è la destinazione, è il viaggio>>
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